DISCOGRAFIA

St'isula

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1997

Jasad B

In copertina: "Bolla effimera"

dipinto di Carlo Hauner, pittore in Salina (arcipelago delle Eolie), che ha lasciato tutto per vivere sull'isola.

Ora sull'isola ha lasciato

il suo cuore...

St'isula

 

O mercatinu

 

Panagia

Niru

 

Mamma li turchi

 

A Mohammed

 

Pensieri

Ciano

Puro "masculu

sicilianu"

Nesci

Ospiti del trio Isola:

Giorgio Di Bella (percussioni, batteria, coro);

Pippo Mafali (basso elettrico 2-5-6-9, contrabbasso 4);

Nello Toscano (contrabbasso 3-8-10);

Aurelio Bandiera (basso fretles 1-8);

Fabio Cacia (coro 3-4-5)

Musiche: N. Rustica, I.Vacalebre, G.Crispino

Testi: I. Vacalebre

Arrangiamenti: Isola

Registrato e missato presso Magic Room Recording Studio (Messina)

Missato da Daniele Grasso, Francesca Camusi

L'edizione del brano "Panagia" è della Big Square - Arezzo

Prodotto da Jasad B

APPROFONDIMENTI

introduzione

Panagia

Introduzione   (di Nicola R.)

Il nostro è un viaggio di ritorno, poiché fino all'età di vent'anni non ci eravamo accorti di vivere sopra un’isola.

Poi quando ce ne siamo andati, puntando decisamente verso nord, durante cinque lunghi anni, abbiamo scoperto l’isola ch’era in noi.

E’ incredibile con quale lucidità  affiorino memorie impresse nel dna, quando sei lontano dalla tua terra.

Puoi sentire nell’aria, in mezzo al caos ed ai fumi di una metropoli, il sale del mare mescolato alla zagara ed allo zolfo del vulcano;

oppure confondere il cigolio delle rotaie del tram con le ruote di un carretto carico di frutti profumatissimi;

oppure ancora scambiare il suono di una sirena lontana con il grido di un venditore di gelsi…

…Cresceva l’isola dentro di noi e già si delineavano le note, i rumori e i colori dei mercati del sud;

si materializzavano e prendevano corpo, assieme all’ansia del ritorno, i personaggi di mille fiabe e leggende ascoltate distrattamente.

E poi, dopo un interminabile viaggio, un attraversamento di acque che sapeva di un ribattezzarsi.

L'album “St’Isula” rappresenta l’urgente bisogno di raccontare una parte di noi, quella parte dell’esperienza terrena.

La profonda sacralità di un luogo si rivela nei comportamenti della gente che lo vive.

Certo non sa di sacro l’ostentata virilità del  Puro Masculu Sicilianu, eppure essa fa parte di un retaggio che affonda le sue radici nei tempi;

Non è strano invece, che a raccontarlo sia una donna, perché proprio lei, “preda apparente”, è la saggia e paziente tessitrice su cui si impernia tutta la cultura mediterranea.

E’ donna anche Panagia, la potente magara che con uno sputo ed una preghiera, è capace di scacciare il male dal corpo del malato, così come è femmina la levatrice che fa nascere in un drammatico parto (Nesci) un’altra femmina indesiderata, in una nobile famiglia siciliana del ‘700.

La realtà in quest’isola di Sicilia, tende a confondersi col mito, così come un’improvvisa fuoriuscita di rosso incandescente magma lavico dal vulcano, che ad un tratto si condensa immobilizzandosi in nera pietra.

Nera come l’abito delle donne che vestono il lutto.

Nero come il vestito di una donna (Niru) che dopo avere versato tutte le lacrime per la perdita del compagno, si scioglie i capelli lasciandoseli cadere sulle spalle, in segno di trasandatezza e di abbandono, perché nera è la morte così come è nero il colore del mistero che la rappresenta.

E poi acqua, acqua e sempre acqua a volontà; liquido amniotico che ci circonda e ci avvolge;

E’ acqua del fiume Ciane (Ciano) di Siracusa, quella da cui si materializza nuda, in una notte di plenilunio, una donna, per rivivere intensi amplessi col suo amante;

ed è acqua di mare invece – che porta sventura, sordido e cupo terrore che giunge dall’oriente su veloci galere – quella dei turchi (Mamma li turchi), che rubano, stuprano e scannano, mettendo a dura prova i siciliani…

E’ in questa dimensione che il sublime, l’incanto ed il magico si mescolano alla cruenta violenza, così come la meravigliosa natura mostra l’altra sua faccia crudele ed inesorabile; i siciliani sembra l’abbiano capito…

È ‘na rosa la me terra, è nu ciuri profumatu,

ci su’ munti, ci su’ ciumi, ca si perdunu 'nto mari;

ma sa strinci forti forti, a 'sta rosa profumata,

 poi li senti li so spini e lu sangu 'nta li mani..

(“La Rosa”- inedito di Vacalebre I.)

Trad.:

E’ una rosa la mia terra, è un fiore profumato,

ci sono monti, ci sono fiumi che si perdono nel mare;

ma se la stringi forte forte questa rosa profumata,

poi le senti le sue spine che insanguinano le mani.  

Panagia   (di Nicola R.)

Come è nato il brano.

Il gruppo Isola era nato da pochi mesi, ed eravamo assorbiti dall’attività compositiva. 

Agli inizi del ’96, in una conversazione sul progetto Isola, una prof di lettere e filosofia ci partecipava una sua esperienza nel paese natio Montalbano Elicona (Me).

Lì, un’anziana donna pratica un rito che si tramanda da secoli, attraverso il quale si scaccia il “fuoco di Sant'Antonio” (alias Herpes zoster), che consiste nella recita di una misteriosa preghiera, accompagnata contemporaneamente da un massaggio che la donna pratica con grande abilità sulle parti doloranti dell’infermo dopo avere sputato su queste.

L'insegnante raccontava che anni addietro si era recata con un'amica presso questa magara per un consulto, poiché ambedue affette dalla dolorosa malattia.

Nell’apprendere le modalità della cura, la sua amica si era ritratta a dir poco schifata, rifiutando ogni intervento, mentre lei, sebbene un po’ perplessa, si era sottoposta al rituale. Ebbene, l'amica subì l’intero decorso della fastidiosissima malattia, con le conseguenti sofferenze, mentre lei, potenza del rito o combinazione (?!?) già dall’indomani aveva quasi completamente superato il problema e qualche giorno dopo non ne aveva più alcuna traccia.

Seguendo con attenzione la narrazione dell’insegnante, non mancammo di farci ripetere le parole del rituale, dall’insegnante sulle prime un po’ restia, che non si era però potuta sottrarre: “Se non ricordo male, una parte della preghiera recitava così: Panagia lu pani facia, passau lu nostru Signori e ‘nci spiau; e illa ‘nci arrispunniu: non su cosi ca riguardunu a’ttia! Puh, lu Signori ‘nci sputau e lu focu si smortau” (trad.: Panagia faceva il pane, passò di lì nostro Signore e le domandò cosa stesse facendo; ella Gli rispose: non sono cose che Ti riguardano. Puh, il Signore sputò ed il fuoco si smorzò).

Il significato era chiaro – aggiungeva l’insegnante. Panagia è la rappresentazione del male, e il Signore, con lo sputo (che in sanscrito simboleggia la parte sublime del Dio) annienta il fuoco che è la manifestazione del male.

Io e Iole, scambiatici sguardi complici, adducendo urgenti impegni ringraziammo in fretta la gentile professoressa e, non senza avere trascritto le parole del rito, la salutammo con riconoscenza, volando letteralmente verso casa.

Appena giunti, io inforcata la chitarra, Iole taccuino con testo alla mano, in pochi minuti componevamo “Panagia”, aggiungendo e sottraendo poche cose da ciò che avevamo immaginato durante il racconto.

Pochi mesi dopo eravamo selezionati, primi su 965 gruppi italiani, alla decima edizione del festival “Arezzo Wave” con questo brano, per originalità del testo e della musica, ed inseriti nella relativa compilation prodotta e distribuita da BMG Ariola. Da lì i primi contatti con le etichette discografiche presenti, che preludevano le successive produzioni.

 

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